Ma come è potuto succedere? Questa è la domanda che ossessivamente si scambiano ormai a tutti i livelli dell’intera catena dell’opinione pubblica, italiana e globale. Come è potuto mai accadere che in un paese contrassegnato dal potere del sogno, dalla suggestione del futuro, dalla religione dello sviluppo, dell’abitudine all’egemonia, potesse vincere un candidato sostenuto, promosso, […]
Ma come è potuto succedere? Questa è la domanda che ossessivamente si scambiano ormai a tutti i livelli dell’intera catena dell’opinione pubblica, italiana e globale. Come è potuto mai accadere che in un paese contrassegnato dal potere del sogno, dalla suggestione del futuro, dalla religione dello sviluppo, dell’abitudine all’egemonia, potesse vincere un candidato sostenuto, promosso, votato, esattamente da tutte quelle figure sociali che rifiutano, rigettano e temono proprio questi valori?
Evidentemente è successo qualcosa di molto drastico, profondo, scombussolante, nella società americana, e dunque nel mondo. Ma un successo di questa profondità, di questa dimensione, di questa spettacolarità, è davvero maturato in così poco tempo si è coagulato in qualche mese è stato possibile solo per l’estrosa personalità di questo buffo personaggio?
Quando ha cominciato a perdere Hillary Clinton ?
Davvero la sua sconfitta è stata determinata dalle ultime soffiate del FBI sullo scandalo delle mail? Oppure è tutta colpa della sua antipatia, del suo non bucare lo schermo, della sua freddezza? Cosa ha deviato e stravolto ogni sondaggio elettorale? Cosa ha annullato l’azione dei grandi media che compattamente sono scesi in campo? Forse la sua troppo declamata disinvoltura politica, la sua vicinanza permanente e atavica al potere?
Io penso che questa sconfitta, come tutti i grandi processi social, venga da molto lontano, addirittura dalla profondità degli anni 80, da quella prima grande svolta conservatrice che poi fu ibernata dall’altalena fra Bush e Bill Clinton del decennio successivo.
Trump è riuscito a scongelare l’iceberg del popolo di Reagan, e a far scorrere nelle vene dell’America esattamente il sortilegio dell’attore californiano. Che, non a caso, fu infatti il primo personaggio politico eterodosso, più personaggio che politico, capace, fin da allora, a mischiare, contaminare e confondere i recinti elettorali tradizionali.
La sua lezione, sia nel primo che nel secondo mandato, fu agevolata e accelerata da una fetta consistente di elettorato Democratico, che si staccò dalla partito dell’asinello,e affiancò il governatore della California. Insieme a quel ceto politico, a quel pezzo di apparato che costituì i comitati dei Democratici per Reagan, ci fu una fetta consistente e già allora significativa di base sociale dell’area democratica, la così detta Rust Bell, la cintura della ruggine, che fin dagli anni 80 coinvolgeva gli stati del centro nord americano Illinois ,Michigan, Wisconsin, gli stati della industria traballante e squassata dai decentramenti ed dalle spregiudicate combinazioni finanziarie.
In trent’anni quella talpa ha scavato in profondità e soprattutto in lunghezza, e ha creato una cultura locale, un archetipo sociale, un modo di essere della società americano, il blu collar frustrato, arrabbiato e minacciato. Sono milioni e milioni, sono la middle class americana, di quella America definita nel 2003, da una straordinaria inchiesta – La Destra Giusta – condotta da due grandi giornalisti inglesi, John Micklethwait e Adrian Wooldridge, che per conto dell’Economist setacciarono la provincia americana per capire chi e cosa fosse ad alimentare il consenso per i cosi detti neocons, i neoconservatori che accerchiavano W. Bush, il presidente dell’inizio del Millennio americano.
L’inchiesta tracciò una nuova geografia sociale culturale ed economica del paese, una mappa che divideva seccamente l’America verticale, ovvero l’America dei grattacieli, dei grandi centri urbani, delle megalopoli globali, delle élites tecno-finanziarie, che sulla globalizzazione e soprattutto sulla smaterializzazione dell’economia, stavano costruendo imperi al di fuori e senza la politica e lo Stato; contrapposta all’America orizzontale, l’infinita provincia americana costituita da un pulviscolo di casette monofamiliari che occupano le pianure che si distendono a perdita d’occhio, quella è l’America della Rustbelt, che abbiamo già incontrato, e della Corn Belt, la cintura del grano, che abbraccia tutta la fascia meridionale degli stati americani da est a ovest.
Proprio le due fasce che hanno oggi costituito un inossidabile blocco sociale a favore di Trump, un consistente, coriaceo e per la prima volta non solo protestatario, consenso elettorale che ha trovato linguasggi e leadership per diventare ambiziosamente governativo.
In questo popolo di Donald Trump il tema centrale riguarda la declinazione del valore dell’individualismo, di una cifra inedita di anarco-tribale, con la domanda di protezione e di salvaguardia dei propri redditi che viene rivolta non al mercato ma esplicitamente allo stato. Per questo popolo il ruolo dell’impero americano è proteggere e garantire il benessere delle comunità, senza minacciarne l’autonomia e l’auto governo.
In sostanza nel pieno del nuovo millennio della comunicazione e della globalizzazione ,rispetto al valore della Libertà, che individualmente viene rivendicato da chi sà come farla fruttare questa libertà, emerge e s’impone il valore della protezione, il ruolo di un potere forte che supporti, affianchi e recuperi, chi invece rischia di rimanere indietro, o almeno teme di poter rimanere indietro, rispetto a quelli che vede dalla sua finestra.
Tutto il conflitto che si è consumato in queste presidenziali è proprio una questione di orizzonte. Da una parte l’America verticale, che abita in alto e dunque guarda più lontano, e sa come usare questa prospettiva, dall’America orizzontale, che abita in basso, e dunque ha sguardo corto,e vede solo muri, e si misura solo con chi gli sta attorno per capire se ristagna o addirittura perde posizioni.
Chi sta solo nel suo giardino sente in lontananza il lavorio di chi sta in alto e teme per la sua sicurezza.
Da qui la causa della rabbia sociale che ha gonfiato le vele di Donald Trump.
In questo dualismo disegnato 15 anni fa c’è una variabile che chi si voleva contrapporre all’ondata populista, poteva e forse doveva ricomporre: è la variabile digitale, l’effetto Silicon Valley. Questo effetto ha funzionato nella parentesi di Barack Obama, il presidente uscente, che nei suoi 2 mandati era riuscito a rimontare la china della rabbia orizzontale, offrendo come nuova prospettiva, come un prolungamento dell’orizzonte locale, proprio lo schermo del computer .
Attorno a quel primato tipicamente americano, mediante quel linguaggio che rassicurava la potenza del paese, Barack Obama riuscì a comporre un mosaico sociale che lo portò alla Casa Bianca, scavalcando ed emarginando, ma non sanando, i rancori e le tensioni della pancia del paese.
Hillary non è riuscita a comporre questo prodigio sociale. Sopratutto non ha capito di doverlo fare, e comunque non ne aveva ne gli strumenti ne la condizioni per riuscirci: troppo rigida la sua figura, che è apparsa, non solo agli avversari, troppo legata a un’immagine ed a una cultura che veniva irrimediabilmente dagli gnomi di Wall Street.
Hillary è una figlia di Wall Street, è una di quelle figure che cavalcano l’onda di questa kermesse economica di questi ultimi 30 anni, è un testimonial di un’idea di governare il mondo tramite le proprie relazioni, le proprie competenze, la propria capacità di sfruttare opportunità e informazioni. Hillary è l’America verticale, e ha perso perché si è rinserrata in quel grattacielo, in quella cattedrale, senza riuscire a rispondere all’assedio del bazar .
Ora la Silicon Valley ha di fronte un dualismo ineludibile per ritornare al centro della scena, per riproporsi come motore dell’economia, della cultura e delle relazioni sociali di un intero paese. Forse non potrà più ambire a farsi stato come poteva accadere con Obama e come sarebbe stato con Hillary, in cui era diventata il valore di riferimento della stessa geopolitica americana. Se non stato almeno economia e potenza dello stato?
Qui si apre uno scenario che potrebbe essere davvero sorprendente, e confermare che l’astuzia della storia non si stanca mai di spiazzare la furbizia degli analisti.
Se, infatti, la Silicon Valley dovesse rimanere l’impero dei grandi monopoli, il regno delle Big Five, il recinto in cui pochi grandi capitani di impresa, da Larry Page e Sergey Brin a Mark Zuckerberg e lo stesso Bezos di Amazon, il luogo chi in virtù dei propri algoritmi pensa di poter riorganizzare le vite dell’umanità, allora è probabile che paradossalmente il mondo di Donald Trump potrebbe rappresentare un ostacolo forse insormontabile.
O, peggio ancora, il nuovo presidente, brandendo la spada di Brenno, potrebbe proporre a questa brigata di monopolisti del calcolo un accordo di potere, per integrarsi con il nuovo blocco di interessi della Casa Bianca e diventate gli scudieri di una nuova America affarista e imperialista. Ma in tal caso i grandi gruppi digitali, che hanno sempre cercato di far coincidere interessi propri e senso comune dei propri utenti, si vedrebbero accerchiati e contestati dall’anima di chi la rete la vive in tutto il mondo in termini libertari e solidaristi.
Una comunità di milioni di professionisti e di centinaia di milioni di operatori che ha ormai gustato il sapore della proprio rilevanza, del proprio protagonismo, della propria differenza, rispetto all’omologazione e alla subalternità che una logica geo politica di una rete a stelle e a strisce riproporrebbe. A cominciare dai nuovi amici russi di Trump.
Invece proprio su questo terreno della nuova identità digitale di un nuovo ruolo della rete di una nuova collocazione e composizione degli interessi dei grandi gruppi monopolistici potrebbe verificarsi un miracolo europeo. Infatti, una rete distinta e distante dal potere americano, priva di quello ombrello protettivo che la stessa Hillary Clinton aveva promesso per preservare il dominio degli algoritmi americani, potrebbe sollecitare una nuova strategia che proprio l’Europa, un Europa unita e compattata dalla freddezza della nuova leadership americana, avrebbe modo di elaborare.
Stiamo pensando all’intervento che Angela Merkel qualche giorno fa, forse non a caso, fece a proposito della minaccia che viene alla democrazia e alla sovranità degli stati dallo strapotere di algoritmi riservati privati e non negoziabili
La storia potrebbe riprendere a correre proprio grazie all’eruzione di questo marziano della politica che è Donald Trump in uno scenario dove ruoli, funzioni, equilibri, verrebbero rimescolati drasticamente; dove i grandi poteri trasversali, dai media all’immaginario hollywoodiano, dalla potenza di calcolo al sistema commerciale globale, si troverebbero senza più una patria da servire, ma costretti a trovare nuove identità, nuovi valori, sicuramente nuovi utenti, e forse anche nuovi padroni.
A questo punto persino la vecchia Europa, quella sgangherata incerta e disorientata comunità di Stati occasionalmente contigui, potrebbe trovarsi a riscoprire una propria bussola un proprio interesse una propria nazione.
Il buco nero che rimarrebbe da colmare riguarda la politica, quella che ci siamo lasciati alle spalle qualche ora fa con il discorso di accettazione della carica da parte di Donald Trump, la politica dove una sinistra, in Italia, in Europa, nel mondo, grazie al tradizionale monopolio della rappresentanza popolare cercava interlocutori e alleanze per diventare maggioranza e governo la rendita di quel monopolio è finita.La sinistra non è più istintivamente il partito del lavoro, degli operai ,dei poveri sullo scacchiere politico.
Sicuramente in Europa, ma anche in America, rimane sguarnito il fronte di una forza che scovi figure sociali trasversali tra le città e le periferie, tra le università e le fabbriche,fra il consumo e la produzione, figure segnate da un ambizione di emancipazione comunitaria e, perché no, collettivista e caratterizzate dalla domanda di libertà individuale che una rete estesa, ramificata, condivisa è negoziabile potrebbe innestare nel ciclo civile.
Forse un giorno gli storici ci spiegheranno che tutto questo imprevedibile prodigio fu reso possibile proprio grazie a quell’incredibile e anche un po’ buffo personaggio che si insediò nello studio ovale della Casa Bianca con l’aura del miliardario conservatore e a sua insaputa ripristino il primato della democrazia.
Michele Mezza
Direttore Scientifico di Pollicina Academy. Consulente e docente multimediale presso l’Università Federico II di Napoli. Giornalista RAI in pensione.
Consulta tutte le analisi di Michele Mezza

Non ci sono ancora pareri